
In Italia non vi è una vera e propria Resistenza “ebraica”, condotta cioè da gruppi di ebrei che si organizzano in quanto tali per combattere nazisti e fascisti. Vi sono, però, singoli ebrei che aderiscono ai diversi gruppi di partigiani e di antifascisti e combattono per liberare il paese e opporsi alla persecuzione.
Molti sono gli ebrei che combattono con le armi o collaborano attivamente con la Resistenza. Secondo le stime più aggiornate, si tratta di circa un migliaio di combattenti e di altrettanti i “patrioti”, cioè persone che, in varie maniere, prendono parte alla lotta senza il diretto uso delle armi.
Tra i partigiani combattenti più famosi vi sono Pino Levi Cavaglione nel Lazio ed Emanuele Artom, Luciana Nissim e Primo Levi in Piemonte-Val d’Aosta. Leo Valiani ed Emilio Sereni entrano a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, che guida l’insurrezione del 25 aprile 1945. Un altro importante dirigente nazionale della Resistenza di origine ebraica è Vittorio Foa, in seguito senatore della repubblica e tra i maggiori intellettuali italiani del Novecento. Otto sono gli ebrei decorati di medaglia d’oro al valor militare alla memoria: Eugenio Curiel, Eugenio Colorni, Eugenio Calò, Mario Jacchia, Rita Rosani, Ildebrando Vivanti, Sergio Kasman e Sergio Forti.
L’unica organizzazione dedita esplicitamente alla salvezza degli ebrei è la DELASEM (Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei), creata nel 1939 ed entrata in clandestinità con l’occupazione nazista.
Oltre alla partecipazione, armata e disarmata, alla lotta contro i nazifascisti, è ascrivibile alla Resistenza anche la lotta quotidiana per sopravvivere e mantenere viva la propria identità culturale e religiosa. Dall’autunno del 1943, infatti, gli ebrei in quanto tali sono oggetto della persecuzione nazifascista, che ha come scopo il loro sterminio. Ogni uomo, donna e bambino di religione semita è considerato un nemico dai nazisti va dunque eliminato. Quella degli ebrei è, quindi, innanzitutto, lotta per la sopravvivenza.
Per scampare alla persecuzione e allo sterminio, gli ebrei attuano diverse strategie. Quella che garantisce la salvezza è la fuga verso i territori già liberati e soprattutto la Svizzera, ma il viaggio è estremamente costoso e pericoloso. Per attraversare il confine bisogna infatti affidarsi a guide che a volte fanno il doppio gioco e consegnano gli ebrei alla polizia fascista. Inoltre, bisogna passare per sentieri impervi, tra le montagne e i boschi, spesso in pieno inverno, di notte e con qualsiasi condizione atmosferica. Infine, non sempre le guardie di confine svizzere permettono l’ingresso nel loro paese, respingendo i fuggitivi.
Un’altra strategia di sopravvivenza è la fuga e il nascondimento in piccoli paesi di montagna, fuori dai grandi centri urbani, dove è più forte la presenza della polizia italiana e tedesca. Tuttavia, anche in questo caso, solo chi ha abbastanza denaro può pagare l’alloggio, il cibo e, talvolta, il silenzio degli abitanti locali.
A Roma sono molti gli ebrei che trovano rifugio in conventi, parrocchie ed edifici religiosi. Si tratta di nascondigli piuttosto sicuri, anche se i fascisti, in un paio di casi, vi fanno irruzione arrestando ebrei e antifascisti. Inoltre, alcuni conventi chiedono di essere pagati per l’accoglienza e non mancano tentativi di conversione, soprattutto nei riguardi dei bambini.
Per molte famiglie, soprattutto le più povere, l’unica scelta possibile è quella di rimanere chiusi nelle proprie case e farsi vedere in giro il meno possibile, nascondendosi in ripostigli o cantine nel caso di irruzione della polizia. Si tratta, in ogni caso, di un’esperienza terribile: coloro che si nascondono sono infatti costretti a uscire di casa di tanto in tanto per lavorare, comprare cibo e medicine, oppure per cambiare nascondiglio, esponendosi al rischio della cattura e, quindi, della deportazione verso i campi di sterminio.
Al di là delle definizioni, vale la pena soffermarsi su due concetti. Il primo è quello contenuto nel termine ebraico amidah, quasi impossibile da tradurre. In questo contesto esso letteralmente significa «posizione eretta», ma la traduzione non rende appieno il senso. Quando parlo di resistenza mi riferisco all’amidah, e ciò include sia le azioni armate che quelle non armate, mentre esclude la resistenza passiva, giacchè dal punto di vista logico è indubbio che non si può resistere veramente in modo passivo. […] Che cosa rientra nell’amidah? Essa include il contrabbando di cibo nei ghetti; il reciproco sacrificio all’interno della famiglia per evitare l’inedia o qualcosa di peggio; attività culturali, educative, religiose e politiche tese al rafforzamento del morale; l’opera di medici, infermieri ed educatori intenti a curare e a mantenere alto il morale così da permettere la sopravvivenza individuale e di gruppo; e, naturalmente, la lotta armata o l’uso della forza (senza armi o con armi “fredde”) contro i tedeschi e i collaborazionisti. [Bauer, Ripensare l’Olocausto, p. 158]