
A seguito dell’ordine di polizia n. 5, i capi delle provincie della RSI istituiscono alcuni campi di concentramento per detenervi gli ebrei. Trattandosi, in realtà, di poche decine di persone, e date le difficili condizioni delle finanze della Repubblica, i capi provincia si limitano a riutilizzare, adattandoli alle nuove esigenze, degli edifici preesistenti, spesso gli stessi campi per internati civili aperti nel giugno 1940 o quelli per i prigionieri di guerra. Un esempio del genere è rappresentato dal campo di Servigliano, usato per i soldati alleati fino al settembre del 1943, e poi destinato agli ebrei italiani e stranieri.
In un caso, in provincia di Grosseto, il capo della provincia apre il campo locale nel seminario vescovile del paese di Roccatederighi, addirittura alcuni giorni prima dell’ordine ministeriale, di sua spontanea iniziativa.
A Roma e a Milano non vengono istituiti campi provinciali, e gli ebrei sono rinchiusi nelle carceri di Regina Coeli e San Vittore.
Il personale direttivo dei campi è fornito da ufficiali di polizia, mentre le guardie sono generalmente militi della Guardia Nazionale Repubblicana.
Le condizioni nei campi della RSI sono in generale piuttosto dure. La scarsezza di cibo, di materiale di casermaggio, di igiene, assieme all’incertezza per il futuro, rendono la vita degli internati molto difficile. Tuttavia, finché essi sono sotto la sorveglianza delle autorità italiane, non corrono rischi particolari. A partire dalla fine del gennaio 1944, però, i comandi nazisti fanno pressioni per assumere il controllo dei detenuti. Nel giro di alcune settimane, tutti i campi vengono svuotati e i prigionieri sono trasferiti a Fossoli e da lì nei campi di sterminio.