
Celeste Di Porto nasce a Roma nel 1925, in una famiglia ebraica. I Di Porto vivono in via della Reginella, una delle strade dell’ex Ghetto, e il padre Giuseppe fa il commerciante ambulante. La situazione economica si aggrava quando, nel 1940, al padre viene revocata la licenza e Celeste deve abbandonare gli studi e cominciare a lavorare.
Il 16 ottobre 1943 la famiglia riesce a scampare alla retata e a rifugiarsi per qualche settimana nella zona allora periferica di Primavalle ma, priva di risorse e di contatti, è costretta a rientrare nella sua abitazione al centro di Roma.
Nell’inverno 1944 Celeste lavora come cameriera nella trattoria “Il Fantino”, a pochi metri da casa. I proprietari sono cristiani piuttosto attivi nell’aiutare le vittime della persecuzione antiebraica, anche se il ristorante è molto frequentato dai fascisti, e in particolare dalla banda Cialli Mezzaroma, un gruppo di collaborazionisti specializzati nella ricerca e nell’arresto degli ebrei, agli ordini del comando della polizia tedesca di via Tasso.
A “Il Fantino” Celeste incontra Giuseppe Antonelli, che fa parte della banda e la convince a collaborare. In breve la donna diventa l’informatrice più importante dei fascisti, denunciando un numero imprecisato di ebrei a partire dal febbraio-marzo 1944 fino alla liberazione di Roma.
Il padre Giuseppe, secondo alcuni, si sarebbe consegnato ai nazisti per sfuggire alla vergogna. Secondo altri viene “normalmente” arrestato. In ogni caso viene deportato e ucciso ad Auschwitz.
Nella notte e all’alba del 24 marzo la banda viene scatenata dal comando di via Tasso alla ricerca di ebrei da inserire nelle liste delle vittime della strage delle Fosse Ardeatine. Anche via della Reginella viene setacciata e molti ebrei finiscono nella rete.
All’arrivo degli americani, la casa di Celeste viene circondata da ebrei e antifascisti che la vogliono linciare. Viene salvata a stento da un gruppo di partigiani. È arrestata e consegnata agli inglesi, che però la liberano. Celeste ne approfitta per scappare a sud, a Napoli, dove però viene riconosciuta da due ebrei romani.
Arrestata nuovamente, viene riportata a Roma e processata nel 1946 assieme agli altri componenti della banda.
Condannata per collaborazionismo, rimane in carcere fino al 1948 quando, a seguito dell’amnistia e di indulti, viene liberata. Nel carcere si converte al cattolicesimo e dopo la liberazione si sposa con rito religioso.
Muore a Roma il 13 marzo 1981.