
Sono pochi gli ebrei deportati dall’Italia che riescono a sopravvivere e a ritornare a casa. La ricerca più recente ha indicato 501 nomi di sopravvissuti. La grande maggioranza di loro viene liberata dai campi di Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen, Bergen Belsen e Ravensbrück. Molto spesso si tratta di sopravvissuti alle interminabili “marce della morte” dai campi dell’est (principalmente da Auschwitz) fino ai Lager situati nella parte occidentale dell’impero nazista.
Si tratta, quindi, di persone stremate e debilitate, traumatizzate e prive di punti di riferimento. Il loro più grande terrore è quello di non sopravvivere alle epidemie che infuriano in Germania e, a quel punto, di non riuscire a rientrare in Italia. A questa paura si aggiunge il timore inverso, di riuscire a tornare a casa ma di non trovarvi più nessuno.
Una volta che le armi tacciono definitivamente, sono molte le istituzioni che si impegnano per riportare gli ebrei in Italia. Tuttavia, il rientro dei perseguitati per motivi razziali è solo una goccia nel mare delle displaced persons, cioè di quei milioni di ex prigionieri politici, militari, lavoratori schiavi che i nazisti hanno deportato e distribuito in tutta l’Europa. Le Nazioni Unite, la Croce Rossa Internazionale, il Vaticano, le istituzioni ebraiche hanno di fronte un compito immane, da realizzare in una situazione di caos e devastazione generalizzati. Censire i deportati, ricostruirne le origini e i luoghi di provenienza, organizzare i trasporti, creare i campi di raccolta, gli ospedali e le strutture necessarie, nell’Europa in macerie del 1945, è un’opera di straordinaria difficoltà che comporta necessariamente ritardi, che spesso i deportati stentano a comprendere.
La macchina del rimpatrio è quindi poco efficiente, e i sopravvissuti sono costretti a viaggi che possono anche durare mesi. In particolare, gli ebrei liberati ad Auschwitz dai sovietici il 27 gennaio 1945 devono aspettare per mesi la sconfitta della Germania e la fine della guerra nel resto d’Europa.
Il viaggio del ritorno dei deportati ebrei è quindi difficile, lungo, spesso totalmente irrazionale. È impossibile descrivere in maniera unitaria il rientro dei sopravvissuti dei campi di sterminio: ogni viaggio è una storia a sé, che coinvolge al massimo piccolissimi gruppi che si formano, si dividono, si rincontrano.
La campagna razzista stravolse le vite di migliaia di cittadini; subirono danni irreversibili anche coloro che erano riusciti a scampare la deportazione e la morte. A guerra finita, con l’animo ancora gonfio di sofferenza e di tristezza, i sopravvissuti si trovarono a percorrere un impervio, incerto e scosceso cammino verso la reintegrazione sociale, economica, civile [Scwharz, Ritrovare se stessi, p. 7].
Una di queste storie è quella di Piero Terracina, deportato da Roma nell’aprile del 1944, quando non ha ancora compiuto 16 anni. Piero viene liberato ad Auschwitz il 27 gennaio 1945, dopo essere sfuggito (come Primo Levi) all’evacuazione del campo e agli ultimi massacri. L’esercito sovietico lo porta prima a Katovice, dove è stato organizzato un campo di raccolta negli spazi già occupati da un Lager nazista. Da qui, Piero è trasferito a Gliwice (sempre in Polonia) e poi a Soči, una località sul Mar Nero, dove viene ricoverato in un sanatorio e da dove, in preda alla disperazione, scrive al consolato italiano. Nell’estate del 1945, il Ministero degli esteri italiano prende a cuore la sua vicenda, cioè quella di un giovanissimo rimasto solo al mondo, e comincia a fare pressioni sul governo sovietico per accelerare la pratica di rimpatrio. Tuttavia, il viaggio di Piero non è ancora finito. Viene trasferito a Rostov, poi a Charkiv, Vinnycya, Odessa e Bucarest. Nella capitale rumena riesce, finalmente, a mettersi in contatto con il consolato italiano e, nel novembre del 1945, a imbarcarsi su un aereo inglese che lo riporta in Italia.