Dopo l’armistizio, Varese e provincia vengono occupate senza resistenza, anche perché il generale Ruggero, comandante militare della Lombardia, emette il seguente ordine:

 Ordino che i civili si astengano da ogni atto ostile verso i soldati tedeschi […] ordino che la popolazione civile consegni le armi […] i civili che dal 12 corrente saranno trovati in possesso illegale di armi potranno essere anche passati per le armi [… ] da questo momento ho proibito nel modo più assoluto le riunioni anche in località chiuse, salvo quelle del culto della chiesa […] contro gruppi di persone di numero superiore a tre sarà senza intimazione aperto il fuoco dalla forza pubblica. [Giannantoni, Fascismo, guerra e società nella Repubblica Sociale Italiana (Varese 1943-1945), pp. 18-19]

Tra il 9 e il 12 settembre, militari, antifascisti ed ebrei si danno alla fuga precipitosa verso la Svizzera. Il 12 settembre il prefetto Giovanni Battista Laura firma a palazzo Littorio la resa senza condizioni nelle mani dell’ufficiale tedesco Gauglitz. Per controllare la frontiera con la Svizzera, viene inviato in città un reparto specializzato di guardie di frontiera, il Bezirks-Zoll-Kommissariat G (BZKom G I.), oltre ad alcuni nuclei dell’esercito, della Luftwaffe e dell’Organizzazione Todt.

Oltre ai tedeschi, ci sono gli italiani della legione della milizia di frontiera “Monte Rosa”, un reparto fascista che all’indomani dell’8 settembre è rimasto compatto al fianco dei camerati nazisti. Lo comanda Elia Caldirola. Infine, vi sono numerose altre unità militari della RSI, che collaborano nella repressione della Resistenza e nella caccia ai fuggiaschi che tentano di espatriare.

Con il passare delle settimane e lo stabilizzarsi della situazione militare e politica, tornano sulla scena anche le autorità fasciste. A inizio ottobre Mario Giacone diviene prefetto, mentre la questura passa nelle mani di Antonio Solinas, sostituito a marzo da Luigi Duca.

Nonostante tutte le forze in campo, la provincia di Varese rimane una delle zone dalle quali è ancora possibile fuggire in Svizzera. Il passaggio è estremamente difficile: gli ebrei, sui quali è posta una taglia, devono trovare documenti falsi, guide sufficientemente esperte e affidabili ed essere in grado di camminare per ore in alta montagna, con intere famiglie al seguito, cercando di sfuggire alle numerosissime pattuglie che sorvegliano il confine.

I fuggiaschi sono, dunque, estremamente esposti. Il 29 febbraio 1944, i fascisti arrestano quattro ebrei che cercano di espatriare nella zona del Lago Maggiore:

L’anno 1944 XXII, addì 29 del mese di febbraio i fin/ri s. V. Gennaro e L. Biagio, appartenenti alla brigata suddetta, in servizio di perlustrazione con il battello a remi nel tratto delle acque Zenna-Poggio, agli effetti doganali, politici e militari dalle ore 18 alle ore 24 del giorno 28 dello s.m., verso le ore 23.30 e precisamente durante il [ill.] nella zona di Zenna udivano il rumore di un battello a remi che si dirigeva verso le acque svizzere. I militari suddetti intimavano subito il “chi va là” e raggiunto il battello hanno constatato su di esso la presenza dei 4 individui sopra meglio specificati. [da Archivio di Stato di Milano, Questura e Prefettura di Varese, b. 3, rapporto della III Legione territoriale della Guardia di finanza “Carroccio” di Milano, s.d.]

Peraltro, non sempre le guardie di frontiera svizzere permettono l’ingresso nel territorio della Confederazione. Le persone che riescono a fuggire devono la loro vita a gruppi partigiani e reti di solidarietà formate da cittadini comuni e spesso dal clero locale che, nonostante i gravi rischi, aiutano chi cerca scampo dalle persecuzioni.

Gli ebrei arrestati sul tratto varesino del confine italo-svizzero sono circa 160.

Bibliografia

Alberto Gagliardo, Ebrei in provincia di Varese. Dalle leggi razziali all’emigrazione verso Israele: Tradate 1938-1947, Varese, ANPI – Arterigere, 1999

Franco Giannantoni, Gli ebrei a Varese tra la tempesta della guerra e il miraggio della Svizzera, «La Rassegna Mensile di Israel», terza serie, 69, 2, pp. 463-494

Franco Giannantoni, Fascismo, guerra e società nella Repubblica Sociale Italiana (Varese 1943-1945), Milano, Franco Angeli, 1984

Franco Giannantoni, La Shoah, delitto italiano. Varese 1938-1945, s.l., Edizioni amici della Resistenza/Quaderno n.2, 2018

Amedeo Osti Guerrazzi, Gli specialisti dell’odio. Delazioni, arresti, deportazioni di ebrei italiani, Firenze, Giuntina, 2021

Marcello Pezzetti, Il libro della Shoah italiana, Torino, Einaudi, 2009

Francesco Scomazzon, “Maledetti figli di Giuda, vi prenderemo!” La caccia nazifascista agli ebrei in una terra di confine. Varese 1943-1945, Varese, Arterigere-EsseZeta, 2005

Testimonianze

La testimonianza di Luciana Sacerdote,

«Eravamo sfollati a Rapallo e lì papà cominciava a sentire di nostri amici che andavano in Svizzera. Noi non volevamo, la mamma specialmente. Ma papà s’è messo d’accordo con alcune persone, era fiducioso. Tutti avevamo addosso parecchi soldi che papà aveva cambiato, tutti nascosti nei posti più strani. Tre uomini, piuttosto giovani, ci aspettavano a Varese, e da lì c’avrebbero aiutato a passare la frontiera. Eravamo in sei, c’era il mio fidanzato, Mario Fubini, di Torino, con sua mamma. Ci siamo messi in cammino che era già quasi buio e abbiamo camminato ore ed ore, fino a quando c’hanno detto: “Ecco, adesso dovete solo passare quella rete e siete in Svizzera!” C’erano effettivamente degli svizzeri… Ricordo che papà insisteva, diceva che noi eravamo autosufficienti, ma questi invece hanno risposto che non c’era più posto, che tutti si erano riversati in Svizzera e quindi non c’era più posto. C’hanno rimandato indietro. A distanza di una settimana tante persone, compresi i miei cugini, sono passati tranquilli. Io non ho mai capito… certuni sì, certi altri no. Senza nessun motivo. Sapevano che fine avremmo fatto rimandandoci indietro. Le persone che ci hanno accompagnato si son dileguate. Son sicura di una cosa: facevano un bel guadagno, e intascati i soldi poi se ne fregavano. La mamma si è scagliata contro papà: “È finita, per noi è finita. Non dovevamo, era pericoloso. L’ho sempre detto, colpa tua!” Che poi, pover’uomo, l’ha fatto per il nostro bene. Effettivamente è stata la nostra rovina».

Tratto da Marcello Pezzetti, Il libro della Shoah italiana, Torino, Einaudi, 2009, p. 91



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