Dopo l’Unità, il processo di emancipazione e di integrazione dei cittadini ebrei nello Stato italiano prosegue. Tra il 1907 e il 1913 l’ebreo Ernesto Nathan è sindaco di Roma, mentre Luigi Luzzatti, economista e giurista di religione ebraica, ricopre importanti incarichi politici nel nuovo Stato italiano, fino a diventare presidente del Consiglio nel 1910. Anche Sidney Sonnino, più volte ministro e capo del governo nel 1906, ha origini ebraiche.
La partecipazione degli ebrei, tra le fila del regio esercito italiano, alla Prima guerra mondiale, dimostra il loro forte attaccamento alla patria. La Grande Guerra viene interpretata dalla maggior parte degli ebrei italiani come un’occasione per portare a compimento il processo di emancipazione iniziato in età napoleonica e proseguito con il Risorgimento.
Nel 1915 la minoranza ebraica costituisce l’1 per mille circa della popolazione italiana: su un totale di 38 milioni di abitanti, in Italia vivono circa 35.000 individui di religione ebraica.
Sono più o meno 5.000 gli ebrei italiani che partecipano al conflitto. Fin dall’epoca dei ghetti, uno dei cardini dell’educazione ebraica è l’insegnamento della lettura dei testi sacri, e con l’emancipazione e l’inserimento nella società, questa attenzione per lo studio garantisce alla minoranza ebraica un livello di istruzione superiore rispetto alla media nazionale. A fronte di una percentuale del 4% sul dato complessivo, il 50% degli ebrei italiani che prende parte alla guerra ricopre il grado di ufficiale, per il quale è necessario aver conseguito almeno il diploma di studi superiori. L’Italia liberale è, del resto, una delle poche potenze europee che ammette senza riserve gli ebrei nei propri ranghi ufficiali; altrove, i militari di tale religione sono relegati ai ranghi inferiori.
Gli ebrei italiani, nella loro maggioranza, rispondevano all’ingresso del paese in guerra con fremiti di traboccante patriottismo, spiegabile con l’aspirazione a suggellare col sangue il rapporto con la patria e madre Italia e con casa Savoia, dispensatrice della loro uguaglianza e libertà, con l’anelito a dimostrare l’avvenuta loro integrazione nel tessuto unitario faticosamente cucito negli ultimi cinquant’anni, consacrandola attraverso una prova militare che diveniva una sorta di esame del grado di integrazione nazionale dell’ebraismo italiano. [Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, p. 114]
I caduti ebrei durante il conflitto sono 399; i decorati circa 700 (5 sono le medaglie d’oro al valor militare).
Vent’anni dopo la fine della Grande Guerra, a partire dal 1938, gli ebrei subiscono l’umiliazione delle leggi antiebraiche. Molti ex combattenti utilizzano le proprie medaglie per chiedere, con scarso successo, una “discriminazione”, cioè la possibilità di essere parzialmente esentati dalle conseguenze delle leggi antisemite fasciste a fronte del coraggio dimostrato nel difendere la patria durante il primo conflitto mondiale. In totale vengono presentate circa 9.000 richieste e nel gennaio 1943 ne risultano accolte più o meno 2.480. È probabilmente questo paradosso il simbolo più evidente del terribile tradimento che gli ebrei hanno subito da parte del Regno d’Italia e del governo fascista.